Dovrei tacere e non scrivere neanche una riga, nè su questa montagna, nè su altre, perchè arrivo alla base del ghiacciaio e non c’è verso di inanellare un “otto” degno di tal nome. Mi pervade un senso di enorme vergogna, amplificato dalla grande lezione di Cate e di come un topolino, vista la tana (l’occhiello della corda), fa un giro attorno prima di entrarci … il resto del nodo è da fare seguendo lo stesso percorso della corda, agganciando l’imbrago. L’otto è fatto, prontamente replicato su Gian, compagno di cordata, e la lezione è stata ben recepita. Questo è il bizzarro inizio ai piedi della Schiena d’Asino, della vera salita al Gran Paradiso, in una fredda giornata di inizio ottobre, con il ghiacciaio in condizioni penose: grigio e spelacchiato.
Come accennato nel paragrafo precedente, io non sono nessuno, non pretendo di insegnare niente agli altri, nè voglio prenderemi la briga di scrivere il come, il dove ed il quando riguardo ad una montagna, parlando da profondo esperto quale non sono: esistono dei seri professionisti per questo. Men che meno voglio sollevare critiche nei confronti di relazioni già scritte. Mi piace disquisire di quello che ho visto con i miei occhi, parlo volentieri dei miei errori affinchè altri non caschino negli stessi tranelli. Do’ voce ai miei arti inferiori, che hanno lavorato una o due giornate, per portare a casa un’escursione. Così com’è stata questa dura salita alla vetta del Gran Paradiso, iniziata alle 6 di una mattina fantastica, colorata d’argento da una luna dirompente sul Ciarforon ed il ghiacciaio di Montcorvè. Il buongiorno è stato incantesimo al cento per cento.
In marcia in direzione ONO, superiamo la fastidiosa pietraia subito a ridosso del rifugio invernale. Ritrovata la terra, rimontando la grande morena susseguente al dedalo di pietre, è facile seguire il sentiero ben battuto, anche per via della luce esagerata della Luna. Dopo uno strappo deciso, si incomincia a marciare in un canale dall’aspetto desolante, su pendenze docili. L’aspetto alieno del luogo è addolcito da un gregge di pecore, salite a ripararsi sin quassù dal fastidioso vento gelido. Mentre l’aurora agevola ancor più i nostri passi, proseguiamo in riverente silenzio, lungo queste lande davvero inospitali. Superata una strozzatura, si giunge ad una serie di terrazze colme di detriti. Il freddo lenzuolo del ghiacciaio finalmente compare alla vista. Decidiamo di salire sino al vertice di un triangolo roccioso che divide in due tronconi i lembi inferiori del Ghiacciaio del Gran Paradiso. Ecco il grande errore, dovuto a relazioni “storiche”, affidabili sì, ma quando le condizioni del ghiaccio erano differenti.
Diciamo che da alcune stagioni ad oggi, il miglior modo per salire la Schiena d’Asino è portarsi sulla morena di sinistra (dx orografica del ghiacciaio), e rimontare tutto il profilo del vallone, sino a giungere al suo culmine, cioè un grande salto di roccia che dispensa generosamente cadute di pietre lungo il ramo sinistro (sempre dx orograf.) del ghiacciaio. Quella che da sotto sembra una via di roccia, si rivela molto semplice e, soprattutto, molto più scorrevole del tradizionale percorso in centro alla Schiena d’Asino. Ancora più valida sembra essere la rimonta dal versante destro (sin. orografica) del vallone. Dapprima una rampa molto ripida, ma accessibile, poi un tratto intermedio docile, quindi un secondo strappo deciso, permettono di raggiungere la Schiena d’Asino sul lembo destro del ghiacciaio, quasi sospesi sopra il Vittorio Emanuele … senza mai pestare il duro grigio!
Noi, involontari conservatori, procediamo lungo la via classica, quella, per capirsi, che si segue con gli sci in inverno: portarsi al centro del pendio ghiacciato e risalire la Schiena d’Asino traversando ove le pendenze si fanno davvero insidiose. Il ghiaccio è durissimo, glabro da neve. Saliamo bene, ma ogni passo è ponderato con grande scrupolosità. Per giungere sopra la Schiena impieghiamo un’eternità: oltre un’ora e mezza! A dire il vero, un piccolo inconveniente ai ramponi ci costringe a salire sulle rocce della sponda destra, “scoprendo” così la comodità degli sfasciumi, nonchè le tracce ben visibili di chi ha sfruttato questo itinerario più sicuro. Ci ricongiungiamo con l’altra cordata proprio al culmine della Schiena d’Asino, con la compagnia ormai rilassata dai primi raggi di luce e dai pendii più sicuri rispetto a quanto trovato sino a poco prima. Una botta di morale non guasta mai.
La seconda metà della salita è più semplice da affrontare: le pendenze meno impegnative, come già detto, e gli ampi spazi attenuano con decisione il senso claustrofobico del primo tratto di ghiacciaio. Gli irregolari pinnacoli di Montcorvè sono nere silhouettes che addobbano piacevolmente gli alti pianori ghiacciati. Avanti a noi il semicerchio delle rocce che delimita l’orizzonte, detta la direzione da seguire. Il punto bianco della Madonna appare finalmente sopra una grande gobba tracciata da ghiaccio scoperto con crepacci ben delineati. E’ la prima volta che riusciamo a vedere la meta terminale.
Riprendiamo a salire su blanda pendenza, badando ai pochi, ma presenti, buchi in corrispondenza dei pinnacoli della Becca di Montcorvè, superata la quale, il profilo del ghiacciaio si impenna: il percorso riprende in direzione NE. Una ripida gobba copre nuovamente l’orizzonte e la meta scompare alla vista. Terminato questo duro tratto occorre superare il crepaccio più pericoloso incontrato, dai limiti non ben valutabili. Lasciata alle spalle questa insidia, non resta altro che attaccare, in una manciata di minuti, la crepaccia terminale, in ottime condizioni. La successiva erta e ghiacciata gengiva, permette l’accesso al breve tratto di cresta terminale.
Lasciati i ramponi al colletto, si procede su terreno facile, ma delicato per via della forte instabilità dei massi. Questi ultimi metri finali non sono mai esposti, fino al famigerato passaggio terminale, proprio ai piedi della Madonnina. Due spit facilitano l’ancoraggio per sicurezza, e l’impressionante balzo che si lascia alle spalle, sul ghiacciaio della Tribolazione si supera anche grazie ai comodi appigli. Una cosa è certa: in caso di traffico, quindi durante i canonici mesi estivi, immagino che solo le prime cordate riescano ad arrivare in punta … Lo spazio per manovrare è davvero esiguo. Inoltre questi benedetti ultimi cinque metri sono davvero un ostacolo insormontabile per chi soffre di vertigini. Il comodo pietrone piatto, a pochi metri dalla vetta è un onorevole punto d’arrivo di consolazione.
Questa volta non voglio enfatizzare più di tanto il panorama che si gusta dalla vetta che, ovviamente, è superbo, grandioso, stupefacente. D’altra parte è scontato che da quassù le cose sono veramente “tutte intorno a tè”, sminuendo in modo umiliante il tormentone della nota casa rossa di telefonia mobile. Il senso di grandiosità si vive soprattutto grazie alla vista sui ghiacciai limitrofi: il caotico ghiacciaio della Tribolazione, che scompare nel baratro dell’Alta Valnontey. Lontano, nel profondo della vallata, si scorgono le alte frazioni di Cogne, fino a Gimillan. Voltandosi a SO, il ghiacciaio del Gran Paradiso, ed il profilo acuminato delle rocce che ne delimitano il periplo. Più in basso, a monte di un’insignificante Tresenta, le nuvole si insinuano nelle valli canavesane e del torinese, fino al limite della regolare piramide del Monviso.
Sono poca cosa, visti da qua sopra, il cono ghiacciato del Ciarforon e la parziale veduta del ghiacciaio del Grand Etret, come è un grigio ammasso di sassi la Punta Fourà. Le Levanne ed il Carro sono lontani comprimari. Soltanto il Monte Bianco rimane invincibile, ad occidente, come il baluardo settentrionale dettato dal Cervino e dal gruppo del Rosa. Per le altre grandi cime, in territorio elvetico, solo una rapida occhiata. Il grande ritardo accumulato per salire ci costringe ad una fuga quasi precipitosa dalla vetta del Gran Paradiso.
In discesa ripassiamo la stessa via della salita, perchè se errare è umano, perseverare è diabolico. Il ghiaccio, nonostante il sole lavori da ore, non ha mollato niente nella parte bassa, contrariamente alle nostre previsioni. Così ripercorriamo con grande cautela la Schiena d’Asino, per ritornare su quel vertice di roccia dal quale abbiamo incominciato l’avventura sul ghiacciaio questa mattina. Mentre togliamo corde, imbraghi e ramponi, l’ultima grande sorpesa della giornata: una copiosa scarica di sassi ci saluta, passando a non più di duecento metri da dove ci troviamo. E’ il segnale che non ci attendavamo, per via delle temperature basse. Invece la Montagna ci ha dato ancora un piccolo insegnamento che, per nostra fortuna, è stato gratuito.
In sostanza, è meglio procedere sulla morena della destra orografica, dalla sua base fino al culmine della Schiena d’Asino e viceversa al ritorno. Le vie di ghiaccio, anche quelle considerate banali, sono sempre più insidiose, per via delle condizioni climatiche che stanno indubbiamente incidendo su questi percorsi. Fosse possibile, sarebbe bello indicare la data di scadenza della relazioni su ghiacciaio, come sarebbe forse necessario riscrivere quasi tutta la letteratura alpina che tratta questo tipo di ascensioni. Di sicuro, quello che era stato scritto quarant’anni fa con maestria e valenza, forse andrebbe rivoltato come un calzino e rifatto ex-novo.
La morale è che, soprattuto per questi casi, non ci si può più fidare ciecamente delle relazioni, anche se redatte da guide o alpinisti di rinomata esperienza (purtroppo!!!). Consultare il più possibile gli esperti ed i grandi conoscitori del luogo e carpire le novità più recenti. E’ il modo migliore per godersi appieno montagne straordinarie ed incantate come il Gran Paradiso, che può fregiarsi pienamente di tale titolo.
Rimessi i piedi sulla “terraferma”, rimane da attraversare il vallone di sfasciumi. Un’autentica sofferenza, ed una grande fatica supplementare che si accumula a quella già presente nelle gambe dovuta alla lunga salita. Il tratto in piano, che introduce al culmine della morena, restituisce finalmente lo sguardo sulla struttura metallica del rifugio Vittorio Emanuele II. Non rimane che ridiscendere il ripido sentiero terroso e attraversare il brutto tratto di pietraia. Ancora un’ora abbondante di sentiero ci separa dall’automobile, in quel di Pont Valsavarenche. Arriviamo giù in basso con le ultime luci, devastati da una giornata eterna, lunghissima e, per una volta, vissuta alquanto pericolosamente. Ma che maestosità questo Gran Paradiso!
Purtroppo un malaugurata dimenticanza del blocco dell’esposizione, ha fatto sì che le immagini dalla Schiena d’Asino in avanti, fossero brutte e rovinate … dovrò tornare al Gran Paradiso per porre rimedio a questo errore.
Info per il Gran Paradiso
Altitudine: 4.061 m.
Quota partenza: 1.960 m.
Dislivello totale: 2.101 m.
Località di Partenza: Pont Valsavarenche.
Tempo salita:
· giorno 1. Pont Valsavarenche – Rif. Vittorio Emanuele: 1h45min / 2h
· giorno 2. Rif. Vittorio Emanuele – vetta Gran Paradiso: 4h / 4h 30 min.
Difficoltà alpinistiche: F
Esposizione: prevalentemente O
Mappa: IGC foglio 102 – Valsavarenche, Val di Rhêmes, Valgrisenche, scala 1:25.000
Appoggi:
- Rifugio Vittorio Emanuele II, C.A.I di Torino. 137 posti letto, telefono +39.016.595920. Locale invernale: 40 posti letto.
Accesso automobilistico
Autostrada: uscita casello AOSTA OVEST, immettersi sulla statale n. 26 fino a Villeneuve.
Da Villeneuve proseguire in direzione Introd, oltre il quale si troverà il bivio Valsavarenche – Val di Rhêmes. Predere a sinistra, e salire fino al termine della strada regionale della Valsavarenche, in località Pont. Ampio parcheggio alla fine della strada.
Attenzione: la gita si svolge interamente nel territorio del Parco Nazionale del Gran Paradiso. La normativa attuale vieta l’accesso ai cani nel territorio del Parco.